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Silvia Romano, rapita in Kenya il 20 novembre 2018

Silvia Romano, rapita in Kenya il 20 novembre 2018

Urge ancora e ulteriormente ricordare che chi fa cooperazione internazionale, chi lavora per una ONG, fa un lavoro, come il poliziotto, il militare, il medico, il giornalista, l’operaio.

Non è che si va a cercare gli attentati e i rapimenti, sono cose che possono capitare.

Mi chiedo perché quando si spara a un poliziotto tutto il paese si commuove, vuole giustizia, vuole vendetta, si cacciano le bandiere, omaggi alla famiglia.

Quando muore un operaio sul posto di lavoro a malapena si cita il suo nome, se poi viene rapita o ammazzata una persona che fa cooperazione internazionale, l’opinione più diffusa è che se l’è andata a cercare, che poteva restarsene a casa.

Perché questi diversi parametri di giudizio rispetto ai lavori, alle vite e alle morti delle persone? Perché?

Mi chiamo Silvia Romano e oggi sono solo una voce nel buio.

Ma dove sono adesso? È tutto buio. Forse da nessuna parte, eppure dappertutto.

Nei ricordi dei miei cari, nelle idee di chi pensa, come me, che la vita abbia un senso solo se dai, se agisci, se credi nell’umanità.

Sono la voce di una ragazza come tutte le altre: di Milano, 23 anni, laureata con una tesi sulla tratta degli esseri umani.

Sono partita con la ONG Africa Milele per il Kenya, dove avevo già vissuto alcuni mesi, lavorando come volontaria con i bambini.

Mi hanno rapita la sera del 20 novembre del 2018, mentre ero al mercato.

E da quel momento, oltre a diventare più forte nel cuore di chi mi ama o nei pensieri di chi si rispecchia in me, mi hanno cucito addosso una colpa, quella di aver seguito un ideale forse troppo scomodo nella società attuale.

Paradossale, vero? Pensare che la mia voglia di dare una mano, laddove le mani sono ancora troppo poche, venga denigrato, come se me la fossi andata a cercare invece di starmene tranquilla a casa mia.

Da dove vengo, io? Dove sono le mie radici se il mio paese non mi sostiene ora che ne ho più bisogno?

Dove sono le voci di chi mi può far diventare un grido unanime, potente, liberatorio?

Negli ultimi giorni la mia vicenda ha preso una piega diversa, a tratti inquietante.

La mia voce ha parlato di un caso di pedofilia che coinvolge un pastore anglicano in Kenya.

Forse ho parlato troppo, ho visto troppo. Forse sono una persona scomoda per qualcuno, fastidiosa per altri. Ero dove qualcuno non voleva che fossi.

Domande sulla mia vita che rimbombano come un’eco silenziosa, che non si dovrebbero fare, ma che tutti osano porsi, come se avessero il diritto di stabilire se le mie scelte siano state giuste.

E certe parole mi costringono ancor più nel silenzio, mi cancellano, mi fanno diventare un giudizio.

Eppure mi ricordo dei sorrisi dei bambini che ho tenuto in braccio e la loro risposta alla vita di stenti che conducono e quello mi fa sentire sicura di me, del lavoro che ho fatto e della mia libertà.

Io sono Silvia e adesso sono solo una voce, quella che userai per parlare di me agli altri: «Amo piangere, commuovermi per emozioni forti, sia belle sia brutte, ma soprattutto amo reagire alle avversità.

Amo stringere i denti ed essere una testa più dura della durezza della vita. Amo con profonda gratitudine l’aver avuto l’opportunità di vivere».


#unadonnalgiorno

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