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Anna Maria Ortese una donna scomoda

Anna Maria Ortese

Anna Maria Ortese è una delle più grandi voci letterarie del Novecento italiano, per le sue opere ha vinto il Premio Strega e il Premio Viareggio.

Forse a causa della sua scrittura poco agile, o del complesso apparato simbolico e tematico dei suoi libri, non è molto conosciuta al grande pubblico.

Nasce a Roma il 13 giugno da una famiglia numerosa e molto povera, che si trasferisce in diverse città prima di stabilirsi nel 1928 a Napoli. Quasi autodidatta – la formazione scolastica costituita solo dalle scuole elementari e da un anno di una scuola commerciale – Anna Maria Ortese si cimenta nel disegno e nello studio del pianoforte, prima di appassionarsi alla letteratura e scoprire la sua vocazione di scrittrice. La mancata formazione scolastica fa risaltare ancor più la perfezione stilistica della sua opera.

Nel 1933 il fratello Emanuele, marinaio, muore al largo dell’isola di Martinica; l’eco della tragedia ricorrerà in tutta l’opera della scrittrice. Il 1933 è anche l’anno del debutto con la pubblicazione di tre poesie su La Fiera Letteraria, tra cui una intitolata Manuele.

Anche un altro fratello marinaio, Antonio, da lì a poco morirà al largo delle coste dell’Albania e dal 1952, a seguito della morte di entrambi i genitori, il nucleo familiare della scrittrice si ridurrà alla sorella Maria, con la quale vivrà tutta la vita.

Il rapporto sororale, essenziale nella vita della scrittrice, sarà per lei anche fonte di perenne rimorso per la vita sacrificata della sorella. Maria, infatti, non si sposerà per rimanerle accanto e il suo lavoro e, successivamente, la sua pensione da impiegata alle poste, saranno quasi le sole fonti di sostentamento per entrambe. La sorella, così come gli altri componenti della famiglia, prenderà corpo trasfigurandosi in alcuni personaggi dolorosi, eterei e senza tempo, fondamentali nell’opera della scrittrice (uno su tutti, Juana de Il Porto di Toledo, monumentale libro autobiografico che ha scritto in sei anni, pubblicato nel 1975).

Dal 1938, insieme alla famiglia, la giovane Anna Maria Ortese incomincia a spostarsi in varie città dell’Italia settentrionale, Firenze, Trieste, e Venezia, dove trova un impiego come correttrice di bozze al Gazzettino.

Nel 1939 partecipa ai Littoriali Femminili a Trieste e vince. Questo le consente di collaborare con importanti riviste come BelvedereL’Ateneo venetoIl MattinoIl Messaggero e Il Corriere della sera.

La guerra e la necessità di sopravvivere la portano in vagabondaggi sempre più frenetici su e giù per la Penisola («avevo attraversato tutta l’Italia in mezzo alla rovina e all’inferno»), che termineranno, alla fine del conflitto, nel 1945, nella vecchia casa di Napoli, semi diroccata e già occupata da altri sfollati. In questa città per lei quasi magica, l’ispirazione e l’immaginazione della scrittrice trovano presto un correlativo oggettivo per manifestarsi appieno. Sono gli anni di fame e sacrifici, di lavori occasionali e di giornalismo, della collaborazione con  la rivista Sud e del rapporto con gli amici che la scrittrice ritrarrà nei suoi reportage. I racconti che pubblica su Milano Sera vengono raccolti nel volume L’infanta sepolta (1950).

Collabora con il Corriere di Napoli abbastanza da sopravvivere e con Il Mondo, dove pubblica nuovi racconti che descrivono la questione meridionale, guadagnandosi l’ammirazione del Presidente Luigi Einaudi, che le procura l’ospitalità per qualche mese da parte dell’Olivetti di Ivrea. Qui porta a termine gli ultimi racconti de Il mare non bagna Napoli, pubblicato nel 1953. È la sua opera più celebre, a metà tra la visione allucinata e la fantasia infantile, in cui è costruita tutta la sua narrativa.

Il mare non bagna Napoli consiste di cinque capitoli, aventi come oggetto le squallide condizioni della Napoli del dopoguerra, caratterizzata da disperazione e senso di rovina. Inizia per la scrittrice un periodo molto sofferto e problematico, d’emarginazione e di strisciante ostracismo, a causa delle sue posizioni critiche nei confronti del mondo intellettuale e culturale dell’Italia dell’epoca.

L’ultimo racconto del libro dal titolo Il silenzio della ragione, dedicato agli scrittori napoletani, scatenerà una polemica lunga e accesa con i suoi amici di un tempo, tanto da costringerla a allontanarsi da Napoli. La scrittrice non rinuncia mai a posizioni critiche nei confronti del mondo letterario dal quale si sente ingiustamente respinta e a cui sente di appartenere a tutti gli effetti. Gli ambienti dell’intellighenzia legati all’allora Partito Comunista accolgono la prosa di Anna Maria Ortese come una critica nei loro confronti. Un viaggio a Mosca insieme con le donne del PCI si rivela disastroso, per l’atteggiamento ostile mostrato dalle compagne nei confronti della scrittrice. Il libro si aggiudica il Premio Viareggio (insieme a Novelle dal ducato in fiamme, di Gadda) e arriva anche il premio Saint Vincent per il giornalismo.

Anna Maria Ortese riprende a viaggiare in Italia e all’estero, scrivendo reportage. Nel 1958, pubblica il libro Silenzio a Milano, che rappresenta il bilancio della sua attività di giornalista sulle colonne dell’Europeo e dell’Unità e, nello stesso anno esce I giorni del cielo, un’antologia delle prime due raccolte di racconti.

In un solo mese, alla fine del 1960, imposta due libri di argomento milanese – Poveri e semplici, che esce nel 1967, aggiudicandosi il Premio Strega, e Il cappello piumato.

Trasferitasi a Roma, scrive il romanzo L’iguana, che apparirà a puntate sulle pagine de Il Mondo (1963) e poi in libreria nel 1965. Nel simbolismo allegorico del racconto, la scrittrice espone la propria posizione critica nei confronti della società,  protesa soprattutto verso quella parte più sensibile, pronta a perdersi dietro a facili entusiasmi sociali ma incapace di portare a termine alcunché di coerente.

Anna Maria Ortese, nonostante un carattere individualista, ha a cuore la comunità ma reagisce a suo modo, molto vicina ai tempi di natura, animali e ambiente in un’epoca in cui pareva non interessasse a nessuno.

Rifugiandosi nei ricordi le ritorna alla mente l’adolescenza, la Napoli che non aveva capito o veduto, tutt’altro che letteraria o angelica. La situazione non felice della città e della famiglia, la madre impazzita, la tragica morte dei fratelli e gli eventi grandiosi e disgreganti delle guerre, sono all’origine de Il porto di Toledo, pubblicato nel 1975. La prima edizione del libro per disavventure editoriali viene portata al macero, ma la scrittrice con grande ostinazione e abnegazione continuerà a lavorarci fino alla fine dei suoi giorni.

Tra una città e l’altra, comincia a pubblicare alcune opere che non avranno mai un vero successo di vendite, solo qualche eco di polemica, come avrà modo di ricordare in Corpo Celeste, ultima opera, anzi opera-testamento che condensa lucidamente il pensiero e la vita della scrittrice: «E penso di non essere un vero scrittore se, finora, non mi è riuscito di dire neppure lontanamente in quale terrore economico – e quindi impossibilità di scrivere – viva, in Italia, uno scrittore che non prenda gli Ordini. E che non abbia avuto, nascendo, nulla di suo, neppure un tetto».

Poco successo di pubblico e scarsa attenzione da parte della critica non le impediranno di avere comunque dei sostenitori nel mondo letterario, uno fra tutti Pietro Citati che la definirà “la zingara sognante”.

La stranezza continua che suscita l’esperienza della vita stessa, nei suoi scritti non è mai egocentrata, ma sempre cosmica, una viva relazione fra tutte le creature viventi.

Il mare e il movimento marino hanno un ruolo centrale nella sua opera, indubbiamente per il segno portato nella sua biografia, il pensarsi “naufraga” o per le città marine che sceglierà; in secondo luogo come analogo del tempo, “insondabile”, sostanza sempre identica e sempre diversa; e infine come figura analoga al lavoro della sua scrittura, sulla quale pensieri, ricordi, percezioni, agiscono con un moto continuo, modellando, aggiungendo, levigando la frase, nella struttura e nella sostanza, fino a farne una concrezione mirabile in cui sembra impossibile distinguere i singoli elementi.

L’impossibilità di trovare un alloggio decente, ancorché sufficientemente tranquillo per il lavoro di uno scrittore, il continuo assillo dei problemi economici, nonostante il successo raccolto da Il mare non bagna Napoli, finiscono con l’influire sul suo precario equilibrio nervoso.

Dalle lettere agli amici, dalle rare interviste concesse, il desiderio di essere riconosciuta come “scrittrice”, come “narratrice”, sarà sempre un punto dolente nella sua vita.

Nel 1975 si trasferisce con la sorella a Rapallo, dove rimane fino alla morte.

A partire dagli anni ottanta, inizia una corrispondenza con Beppe Costa che la spinge a pubblicare prima Il treno russo, con il quale viene premiata a Rapallo, e successivamente Estivi terrori.

Usufruisce della Legge Bacchelli grazie alla raccolta di firme e interventi presso la Presidenza del Consiglio dei ministri organizzata da Costa insieme al poeta Dario Bellezza e alla giornalista Adele Cambria.

Solo in tarda età, esattamente nel 1993 a 79 anni, Anna Maria Ortese riuscirà ad avere un maggior successo di pubblico con Il Cardillo Addolorato, edito da Adelphi, casa editrice che già dal 1986 cominciò a ristampare tutte le sue opere (in collaborazione con l’autrice stessa) in modo da formare un corpus rivisitato e organico.

Il 10 marzo 1998 si spegne all’ospedale di Rapallo, in seguito a un collasso cardiocircolatorio, dopo aver passato gli ultimi mesi di vita nell’impegnativo e febbrile lavoro di riedizione de Il porto di Toledo, che esce di nuovo, postumo, lo stesso anno, per Adelphi.

Lo stile di Anna Maria Ortese si caratterizza per il suo sperimentalismo, per la sua costante ricerca estetica, senza cedere alla tentazione di una forma ermetica o eccessivamente avanguardista. L’isolamento e la solitudine patiti lungo tutta la sua esistenza, insieme alle umiliazioni e ai lutti, nella vita privata come in quella letteraria, ne fanno un personaggio difficile e per tanti versi scomodo, capace di critiche e posizioni molto dure, in un paese in cui la vita intellettuale è sempre stata caratterizzata dallo schieramento ideologico.

È sempre stata una donna scomoda, nonostante bramasse di essere riconosciuta come letterata, visto che aveva fatto della scrittura il suo scopo nella vita, allo stesso tempo sapeva di appartenere agli ultimi, i poveri, i disadattati.

Della sua solitudine non era una vittima, ma artefice: diceva di essere una persona antipatica e se ne infischiava dei circoletti letterari, dei salotti,  delle apparizioni pubbliche.

Sono sempre stata sola, come un gatto. Io non voglio piacere per un’immagine, io non voglio “immagine”. La realtà mi stanca, la realtà è un muro di volti. Io sono una persona isolata. Mi sembra di venire dal fondo delle tenebre, però sì, ho avuto il piacere di fare qualche cosa, di poter dire: io esisto.

#unadonnalgiorno

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