Non si sottolinea mai abbastanza il ruolo che hanno avuto le donne nella Resistenza italiana.
Sono state settantamila, forse molte di più. Eppure, il loro ricordo è entrato solo recentemente nella storia ufficiale.
Molte di quelle che vi hanno partecipato non hanno chiesto un riconoscimento, perché sentivano di aver fatto solo il loro dovere.
Alcune delle loro azioni di massa hanno ottenuto risultati importanti: si pensi alle donne che, nella Napoli occupata del settembre 1943, impediscono i rastrellamenti degli uomini, facendo letteralmente svuotare i camion tedeschi già pieni, e innescando la miccia dell’insurrezione cittadina.
Oppure, alle cittadine di Carrara che, nel luglio 1944, resistono agli ordini di sfollamento totale impedendo ai tedeschi di garantirsi una comoda via di ritirata verso le retrovie della linea Gotica.
Nella maggior parte dei casi le partigiane hanno fatto le staffette: portavano cibo, armi, riviste, materiali di propaganda. Rischiavano la vita, torture e violenze sessuali. Non erano quasi mai armate, quindi non si potevano difendere. In molte, hanno avuto ruoli di protezione dei partigiani: li nascondevano, li curavano, portavano loro i viveri nei nascondigli, si preoccupavano della loro sopravvivenza. Altre, in numero minore, hanno partecipato direttamente alla lotta armata.
La resistenza senza le staffette non sarebbe stata possibile, eppure, dopo la guerra in poche chiesero il riconoscimento di partigiana perché bisognava aver partecipato alla lotta armata per almeno tre mesi all’interno di un gruppo organizzato riconosciuto.
Le donne che hanno ricevuto medaglie d’oro al valore per le loro azioni durante la resistenza sono state solo diciannove: Irma Bandiera, Ines Bedeschi, Gina Borellini, Livia Bianchi, Carla Capponi, Cecilia Deganutti, Paola Del Din, Anna Maria Enriquez, Gabriella Degli Esposti Reverberi, Norma Pratelli Parenti, Tina Lorenzoni, Ancilla Marighetto, Clorinda Menguzzato, Irma Marchiani, Rita Rosani, Modesta Rossi Polletti, Virginia Tonelli, Vera Vassalle, Iris Versari, Joyce Lussu.
Molte di loro scrissero delle autobiografie, tra queste: Libere sempre di Marisa Ombra, Con cuore di donna di Carla Capponi, Portrait di Joyce Lussu, La ragazza di via Orazio di Marisa Musu, Autobiografia di Maria Teresa Regard.
La Società italiana delle storiche e gli istituti storici della resistenza hanno fatto un lavoro di ricerca importante a partire dalla fine degli anni ottanta, cosa che ha spinto molte protagoniste della resistenza a condividere le loro memorie e a renderle pubbliche.
Dovremmo ricostruire i fili biografici di queste donne – la maggior parte delle quali è oggi scomparsa – per permetterci di raccontare quello che finora è stato taciuto.
Trentacinquemila furono le partigiane, inquadrate nelle formazioni combattenti; 20.000 le patriote, con funzioni di supporto; 70.000 in tutto le donne organizzate nei Gruppi di difesa; 16 le medaglie d’oro, 17 quelle d’argento; 512 le commissarie di guerra; 683 le donne fucilate o cadute in combattimento; 1750 le donne ferite; 4633 le donne arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti; 1890 le deportate in Germania.
Questi i numeri dati dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia della Resistenza al femminile, una realtà ancora troppo poco conosciuta e studiata.
Dati numerici non completamente attendibili, poiché la maggior parte di essi si ricava da riconoscimenti ufficiali e “premiazioni” assegnate a guerra conclusa sulla base di criteri militari, in cui la maggioranza non rientrava o non si riconosceva.
È importante sottolineare che le donne della resistenza non si affiancarono ai loro compagni soltanto con il ruolo di cura attribuito loro dalla memorialistica e dalla storiografia ufficiale, né si può più dire che esse stavano ai margini della lotta di liberazione, esse ne furono protagoniste.
L’azione femminile, oltre alla direzione dettata dalla necessità di dare assistenza ai partigiani, attraverso molteplici attività materiali, si orientava anche politicamente: numerosissime donne, di ogni estrazione sociale, operaie, studentesse, casalinghe, insegnanti, in città, così come in campagna, organizzarono veri e propri corsi di preparazione politica e tecnica, di specializzazione per l’assistenza sanitaria, per la stampa dei giornali e dei fogli del Comitato di Liberazione Nazionale.
La seconda guerra mondiale ha permesso alle donne di emergere dall’anonimato trasformandole in soggetti storici visibili, nell’esperienza di sostegno e solidarietà offerta all’azione partigiana.
La Resistenza, per queste donne, non significò soltanto impugnare un moschetto, ma la conquista della cittadinanza politica.
Il desiderio di liberarsi dai tedeschi si intrecciava con quello di conquistare la parità con l’uomo: fu allora che la donna acquistò la consapevolezza del proprio valore e delle proprie capacità, derivante dalla rottura del sistema di controllo sociale causata dalla guerra.
Si trattò di una guerra nella guerra, della battaglia per la loro emancipazione dopo una millenaria subordinazione. La motivazione politica portò a un risultato importantissimo: la richiesta di un riconoscimento di un ruolo pubblico nel nuovo sistema democratico, fino ad allora negato alla donna da una società prevalentemente maschilista.
Il ruolo della donna nella Resistenza non è mai stato studiato con sufficiente serietà.
La partecipazione alle lotte partigiane le spinse a essere protagoniste, ad assumersi responsabilità storiche dirette, a uscire dai moduli di un dovere solo domestico. L’esperienza resistenziale, comportò anche altri elementi di novità: l’influenza sul carattere dell’appello al coraggio fisico e alla resistenza psichica, l’obbligo di prendere rapidamente decisioni drammatiche, lo sviluppo di capacità di controllo e di operatività in campi ignoti, l’ampliarsi del sentimento di solidarietà e il divenire prassi attiva di una conoscenza collettiva di classe.
La lotta partigiana vide le donne nei Gap (Gruppi d’azione partigiana), nelle Sap (Squadre d’azione partigiana) e in montagna, nell’organizzazione di scioperi e agitazioni esclusivamente femminili (si pensi alle grandi manifestazioni seguite a Torino alla morte delle sorelle Arduino) nelle carceri, sotto la tortura (senza parlare), nella diffusione della stampa clandestina (le messaggere erano quelle che, mimetizzandosi e mettendo a repentaglio le loro vite, hanno superato le linee tedesche per stabilire un contatto fra loro i compagni d’arme).
Simbolo della loro opera è una comune borsa da spesa, nella quale nascondevano sotto frutta e verdura, le informazioni cifrate dei partigiani, nelle pericolosissime missioni di collegamento.
Con l’occupazione nazista dell’Europa, furono centinaia le partigiane jugoslave, francesi e italiane a cadere sul campo di battaglia, armi in pugno.
Oppure fucilate, come Lina Bandiera e Ines Bedeschi. O Irma Marchiani, messa al muro vicino a Modena, dopo l’evasione dalla prigione tedesca. E ancora: Gina Borellini ferita in battaglia nell’aprile del ’45, Ancilla Marighetto, uccisa in combattimento a soli 18 anni sui monti di Trento. Nel 1944 cadde in battaglia Rita Rosani, fondatrice, a Verona, del battaglione partigiano “Aquila”. Paola Del Din fu l’unica donna a lanciarsi con il paracadute, in una missione sulle montagne di Belluno.
Le donne partigiane seppero potenziare il coraggio maschile con l’esempio, la scelta di affrontare un nemico feroce, la dedizione, il loro sguardo e sorriso.
Non dobbiamo mai permettere che il loro apporto alla liberazione del paese, cada nel dimenticatoio.
#unadonnalgiorno