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Dolores Prato

Dolores Prato

Nell’agone ho sempre vissuto, mai vincitrice, mai vinta, ma sempre resistente.

Dolores Prato è stata insegnante, scrittrice e poeta. Le circostanze della nascita, abbandonata dalla madre e con un padre sconosciuto, hanno sicuramente condizionato la sua vita, ha sempre avvertito la sua sorte tormentata come annunciata da un presagio di eccezionalità.

Voce fuori dal coro letterario e della cultura del Novecento, ha saputo raccontare la provincia italiana con delicata ruvidezza e sconcertante sincerità.

Nacque a Roma il 12 aprile 1892 dalla relazione extraconiugale di Maria Prato, vedova con cinque figli, con un avvocato calabrese che aveva un’altra famiglia.

Da neonata venne affidata prima a una balia e poi a un cugino della madre, un canonico che viveva con la sorella a Treia, un borgo in provincia di Macerata. Nel 1905 venne rinchiusa in un’educandato di suore di clausura. Si è sentita sempre inadeguata, non ha conosciuto il calore familiare e l’affetto che avrebbe meritato.

Laureata in lettere a Roma, nel 1919, ha insegnato in varie città italiane.

Nemica del fascismo e decisa a non prendere la tessera del partito, ha vissuto prima a Milano e poi a Roma, dal 1930, dove è rimasta per tutta la vita. Nei primi tempi insegnava all’Istituto Marymount ma a causa del suo cognome, ritenuto a torto di origine ebraica, venne costretta a lasciare la scuola e vivere in maniera precaria, collaborava con vari quotidiani, impartiva lezioni private prima di diventare assistente di una giovane con disabilità. Il suo appartamento fu un punto di ritrovo per intellettuali antifascisti.

Finita la guerra, scriveva articoli di cultura per Paese Sera e per Il Globo.

Non ha mai trovato un editore disposto a pubblicarla nonostante fosse segnalata in vari premi. Ha pubblicato a sue spese i primi due libri, nel 1963, Sangiocondo che aveva ottenuto una segnalazione speciale al Premio Prato nel 1948 col titolo Nel paese delle campane, e, nel 1965, Scottature, racconto lungo, che aveva vinto il Premio Nazionale Stradanova.

Aveva ricevuto dei premi anche per i suoi articoli giornalistici, senza mai ottenere particolare fortuna.

Soltanto nel 1980, ormai ottantasettenne, Einaudi ha pubblicato Giù la piazza non c’è nessuno, lunga narrazione autobiografica dedicata all’infanzia trascorsa a Treia a cui aveva lavorato incessantemente dal 1973, attingendo dal suo archivio personale di ricordi, memorie e documenti.

La versione, fortemente ridotta da Natalia Ginzburg, divenne un caso letterario forse anche per l’età avanzata della scrittrice considerata ‘esordiente’.

Il romanzo autobiografico, è la ricostruzione di un mondo e di anni perduti, la cronaca minuziosissima della vita quotidiana d’un piccolo paese italiano alla fine del diciannovesimo secolo. Lucidamente e impietosamente introspettivo, pungente e fluido, in cui risaltano metafore, stilemi e vocaboli insoliti, durezze improvvise, dialettalismi di grande carica evocativa.

L’autrice, però, fu scontenta di quell’edizione parziale e ha continuato a rivedere il testo che venne pubblicato per intero soltanto dopo la sua morte, grazie a Giorgio Zampa, saggista e germanista, editor di Eugenio Montale che ha curato anche l’edizione di Le ore, il seguito incompiuto di Giù la piazza non c’è nessuno.

Dolores Prato ha vissuto una vita di grande solitudine e precarietà in cui non ha mai smesso di scrivere. È diventata nota a quasi novant’anni, tre anni prima di spegnersi, il 13 luglio 1983 in una casa di riposo di Anzio.

Una parte consistente delle sue carte sono conservate all’Archivio Contemporaneo del Gabinetto Vieusseux di Firenze.

Ogni anno, il comune di Treia promuove un convegno sulla scrittrice che vi ha vissuto dai cinque ai diciotto anni.

Aveva la perentorietà, che poteva diventare asprezza, di chi non accetta le leggi usuali della vita – raccontava Zampa – i compromessi, le piccole e grandi viltà, aborriva le espressioni pietose, le parole di compassione. A 90 anni, quando potei frequentarla, era irriducubile, temeraria, esigentissima, avversa a ogni forma di prevaricazione (…) ma dolcissima in certi abbandoni che la facevano apparire senza età.

 

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