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Francesca Mannocchi, la forza delle domande

Francesca Mannocchi reporter dalle zone di guerra

Francesca Mannocchi è una giornalista freelance che si occupa di migrazioni e conflitti.

Possiamo fare domande. E farci domande. È l’unico diritto e prima ancora l’unico dovere che abbiamo: provare ad entrare nelle aporie, negli spazi di non comprensione, negli spazi di contraddizione anche dolorosa. È la forza delle domande che crea la ricerca, costruisce la pubblica opinione e le scelte che poi facciamo.

Francesca Mannocchi è un importante punto di riferimento del giornalismo d’inchiesta, soprattutto in zone di guerra, collabora con numerose testate italiane e internazionali (L’Espresso, Stern, Al Jazeera English, The Guardian, The Observer). Ha realizzato reportage in Siria, Iraq, Palestina, Libia, Libano, Afghanistan, Egitto, Turchia.

Nel 2018, il documentario Isis, Tomorrow. The Lost Souls of Mosul diretto con il suo compagno, il fotografo Alessio Romenzi, è stato presentato alla 75° edizione del Festival Internazionale del Cinema di Venezia.

Ha pubblicato: Se chiudo gli occhi. La guerra in Siria nella voce dei bambini (2018), Porti ciascuno la sua colpa (2019) e Io Khaled vendo uomini e sono innocente (2019). Tra i molti riconoscimenti che ha ricevuto, il Premio Franco Giustolisi per i suoi reportage sul traffico di migranti e le carceri libiche e il prestigioso Premiolino.

Porti ciascuno la sua colpa” è il racconto della liberazione di Mosul dall’Isis. Il saggio fa emergere le tensioni dell’Iraq, diviso da una guerra civile, in cui i concetti di giusto e sbagliato si confondono, lasciando spazio a interrogativi irrisolvibili.

Le persone che ho incontrato, anche i più giovani, avevano una consapevolezza molto netta della circolarità della storia. 

Raccontiamo gli spari, le vittime, gli ospedali da campo, i campi profughi, le emergenze, ma non raccontiamo quasi mai la sensazione di abbandono, stigma sociale, che si crea perché quei vuoti non vengono quasi mai riempiti da un’alternativa virtuosa in grado di tirare fuori quelle famiglie, quelle donne e quei bambini, dall’ineluttabilità del ripetere la stessa vita dei padri.

Le donne sono state per me, come giornalista prima e come scrittrice poi, la parte forse più difficile, ma sicuramente la più stimolante. Non dimentichiamo mai che Isis significa Stato Islamico: noi ci concentriamo sempre su ‘islamico’, ma non dobbiamo dimenticarci che nel progetto dell’Isis c’è la costruzione geografica di uno stato, il che significa scuola, educazione, funzione sociale della donna. E, nel progetto folle di costruzione di questo stato fondamentalista islamico, le donne hanno la funzione di crescere e educare i ‘cuccioli del califfato’ come futuri combattenti, come futuri martiri se necessario.

Le donne che mi sono trovata di fronte potevano argomentare il loro supporto a questa ideologia. 

Il primo impatto con la guerra irachena è stato l’impatto con una guerra ipermediatica. Quando è iniziata l’offensiva su Mosul si contavano centinaia di telecamere, di troupe, di giornalisti sul campo, e questo mi ha fatto molto riflettere sul ‘metodo’ del racconto. Sull’idea che la grande maggioranza dei racconti (non tutti, naturalmente) si basavano su grandi cliché.

La responsabilità dei governi occidentali è sicuramente anche la colpa di una narrazione dominante.

Visto che siamo noi giornalisti a creare parte dell’immaginario e dell’opinione pubblica, dobbiamo essere testimoni responsabili.

La colpa, sempre da un punto di vista del “metodo”, è l’idea di non accendere le telecamere sulla cosa più interessante delle guerre: il dopoguerra.

Cosa succede dopo? Cosa nasce su queste macerie? Se c’è una responsabilità è esattamente questa: la responsabilità di non imparare le lezioni che la storia recente ci ha consegnato. C’è una cosa che mi ha insegnato, soprattutto la Libia, in questi anni: quando sei sul campo per raccontare una guerra, se sei attento e accendi le antenne giuste, vedi già gli elementi della guerra successiva.

Sono tutti lì: nella dinamica ‘il nemico del mio nemico è il mio amico’ vedi già quelli che sono i potenziali nemici di domani. Possiamo continuare a farci delle domande complesse, perché la realtà è complessa e, prima che risposte, necessita le domande giuste.

Se il giornalismo e la letteratura possono fare qualcosa, oggi, in tempo di grande riduzione della complessità, il loro compito è quello di aiutare le persone a porsi domande complesse e chiedere costantemente risposte perché queste domande non restino perse nel vuoto.

E di non accontentarsi della soluzione semplice, della dichiarata vittoria dopo un conflitto.

Soprattutto dobbiamo chiederci: qual è l’idea di futuro che abbiamo rispetto a queste grandi crisi? Che sono le crisi migratorie, le crisi dei rifugiati, le guerre, i cambiamenti climatici.

Oggi abbiamo dichiarato vittoria, ma vittoria su cosa? E come la costruiamo questa vittoria? Perché altrimenti significa, come il titolo di uno dei capitoli del libro, ‘vincere la guerra e perdere la pace.

Francesca Mannocchi è stata una delle prime a scrivere che “i campi libici”, quelli che chiamiamo “centri di accoglienza”, sono controllati dagli stessi clan che gestiscono il traffico di esseri umani.

Non esistono centri di accoglienza, in Libia, ma prigioni: la legge libica, cioè la legge di uno stato che riconosciamo come interlocutore, le chiama così. Perché è quello che sono. Chiamare le cose con il loro nome è fondamentale. È un dovere di coscienza, prima che di onestà. Le poche cose che so, perché le ho imparate e studiate, sento di poterle inchiodare sotto forma di domande. Specializzarci ed essere severi ma non giudicanti è un esercizio che dovremmo fare tutti. 

Il cuore della questione libica è capire chi comanda cosa, dove sta il confine tra criminalità e ufficialità, chi sono davvero nostri interlocutori. E non perché si debba poi decidere con chi parlare e con chi no. Per me si deve negoziare con tutti gli attori, anche quelli che non ci piacciono. Però credo che questa operazione di Realpolitik vada esplicitata con l’elettorato. Devi dire ai cittadini: volete che il gas vi arrivi la mattina a casa senza qualcuno che vi manda a fuoco la raffineria? Allora toccherà fare accordi con dei criminali. A noi invece è stato detto che stavamo facendo accordi con la Guardia Costiera libica, e in questo modo abbiamo consentito che quel paese passasse dal business del traffico a quello dell’accoglienza.

Francesca Mannocchi ha da poco scoperto di avere la sclerosi multipla e 17 lesioni al cervello, che sta curando. Ha un figlio di tre anni, Pietro, che ha lasciato per la prima volta quando aveva quaranta giorni, per andare in Iraq.

Era iniziata l’offensiva, la mia coscienza mi diceva di andare e andai. Io e Alessio lasciammo Pietro ai miei genitori. Nel nostro paese esistono due tipi di madri: le ossessive e le giudicate. Le mie amiche si contano sulle dita di una mano e nel gruppo WhatsApp delle mamme ho preteso che ci fosse anche Alessio. Da sola non riesco ad avere a che fare con persone che hanno l’ansia delle merendine, né intendo ascoltare le ragioni dei no vax.

Quando vedi genitori che si genuflettono, in un ospedale da campo, per far vaccinare i figli, un antivaccinista proprio non puoi ascoltarlo. 

Il populismo, il sovranismo, l’estrema destra, sono arrivati a riempire un vuoto che s’è creato non soltanto perché la politica ha smesso di dare aiuti concreti, ma pure perché ha smesso di creare spazi di aggregazione. Gli stessi vuoti che da noi sono stati riempiti dal populismo, in Iraq sono stati riempiti da Daesh. Parliamo della stessa cosa. Dello stesso mondo. Degli stessi uomini.

Francesca Mannocchi va a raccontare la guerra dove la fanno e poi torna a casa da suo figlio e lo porta al mare, al parco, o in campagna.

Non crede al caso. Siamo l’effetto di quello che scegliamo e di quello che, scegliendo, lasciamo. Penso che il male abbia sempre una ragione. La storia, se riannodiamo tutti i fili, ce la mostra sempre.

#unadonnalgiorno

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