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Alessandrina Massini Ravizza

Alessandrina Massini Ravizza

Filantropa, emancipazionista, pioniera di tante battaglie civili, una vita spesa per il sociale, questo e tanto altro è stata Alessandrina Ravizza. Fu protagonista di quella nuova corrente di filantropia laica, che si differenziava dalla beneficenza perché finalizzata al riscatto materiale della popolazione.

Nacque nel 1846 col nome di Alessandra Massini a Gatčina, in Russia, da padre milanese e madre tedesca. Cresciuta in un ambiente cosmopolita, arrivò a conoscere otto lingue. Visse in Belgio e poi a Locarno, prima di trasferirsi a Milano nel 1863. Qui conobbe l’ingegnere Giuseppe Ravizza che sposò quando aveva vent’anni e da cui prese il cognome con cui è passata alla storia.

Ereditò la visione politica e i metodi di lavoro dalla conoscenza e collaborazione con donne straordinarie come Laura Solera Mantegazza e Ersilia Bronzini Majno, organizzatrici infaticabili di iniziative umanitarie, patriote e filantrope emancipazionista. Intraprendenti realizzatrici di opere assistenziali che avevano il fine di trasformare le coscienze per rigenerare la società intera, su basi di giustizia e uguaglianza sociale.

Colta, generosa, comunicativa, Alessandrina Ravizza seppe coinvolgere nelle sue imprese persone di ogni ambiente e classe.

Aderì alla Lega femminile milanese e poi alla Società pro suffragio, che si batteva per il voto alle donne. Fu tra le organizzatrici dell’Unione Femminile Nazionale, collaborando anche al periodico dell’associazione Unione femminile.

Attivando la partecipazione collettiva, riuscì a trasformare iniziative nate con fondi irrisori in imprese modello e spesso prospere. Sostenne numerose iniziative riformiste e vari istituti pionieristici nel campo dell’assistenza, come la Scuola professionale femminile, che consentì a molte giovani della piccola borghesia l’accesso a lavori qualificati; la Scuola laboratorio per adulti e bambini sifilitici dove le prostitute potevano studiare e apprendere un lavoro e i bambini ricevere le cure di maestri sensibili, in un clima affettuoso e rilassato; la Cucina per ammalati poveri, punto di riferimento di emarginati ma soprattutto di adolescenti sbandati e delinquenti, che trovarono in lei una confidente e una protettrice; il Magazzino cooperativo benefico e l’Ambulatorio medico gratuito, che offriva anche assistenza ginecologica alle donne più povere, nel quale prestarono la loro collaborazione le prime mediche italiane come Anna Kuliscioff Emma Modena.

Nel 1901 fu tra le fondatrici dell’Università popolare, sorta per diffondere la cultura tra le classi più povere.

Nel 1906 venne assunta dalla Società Umanitaria con l’incarico di direttrice della Casa di lavoro, un istituto che aveva il compito di offrire a persone bisognose e disoccupate la possibilità di migliorarsi attraverso l’istruzione e il lavoro. Questa fu l’attività a cui si dedicò con maggiore intensità occupandosi praticamente di tutto, organizzare i corsi, selezionare il personale, procurare i finanziamenti, dirimere le liti interne, e soprattutto difendere l’istituto dagli attacchi di coloro che, in nome del profitto, avrebbero voluto chiuderlo.

Per trovare fondi, nel 1911 con la collaborazione di alcuni giovani artisti futuristi (Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo) organizzò l’Esposizione d’arte libera, una grande mostra dal formato insolito, non una vetrina di artisti famosi, ma una manifestazione che aveva lo scopo di «mostrare che il senso artistico, ritenuto privilegio di pochi, è innato nella natura umana. L’esposizione raccolse oltre 800 opere di circa 400 autori: accanto ad artisti di fama, c’erano illustratori e cartellonisti, ma anche operai (scalpellini e decoratori) e perfino qualche bambino.

Negli ultimi anni della sua vita si confrontò con il disagio per l’avvento di un’epoca dominata dal denaro, dall’antagonismo sociale, dalla fine della solidarietà umana. Nel 1913 la Casa di lavoro dovette chiudere i battenti e per la donna, già malata da tempo, questo fu un colpo di grazia.

Negli ultimi anni della sua vita pubblicò racconti ambientati nei bassifondi di Milano, dando prova di una scrittura efficace e toccante.

Morì il 22 gennaio 1915.

La scomparsa della donna più popolare di Milano fu commemorata solennemente al Teatro del Popolo della Società Umanitaria il 21 marzo dello stesso anno, presero la parola numerose personalità del mondo della cultura, tra cui l’amica di tutta una vita, la scrittrice e poetessa Ada Negri che disse: L’umanità le fu croce da portare sulle spalle: portò questa croce cantando, con la splendente serenità delle vocazioni altruistiche. “Non c’è nulla di impossibile” era il suo motto.

 

Alessandrina Ravizza per tutta la vita ha combattuto la retorica, la filantropia dell’elemosina e il culto della propria eccezionalità.

Nella sua intensa vita non ebbe paura di nulla, nemmeno di scontrarsi con la disperazione più nera, di accovacciarsi tra prostitute e ammalate di sifilide e di prendere sotto la sua protezione i piccoli manigoldi che preferivano il coltello al gioco della palla. Manteneva le sue promesse e gli impegni presi a costo di mettere in gioco la propria salute, in nome dei diritti naturali universali, propri di ogni essere umano.

È stata una figura antesignana della moderna concezione della politica sociale.
Il Comune di Milano le ha intitolato un parco pubblico nella zona sud della città, vicino all’Università Bocconi.
Così la ricordava l’amica Sibilla Aleramo, su L’Unità l’1 agosto 1946: “La sua anima aveva un vigore, una tenacia, una passione, un’originalità non inferiori a quelle adoperate da un Michelangelo nel lungo esercizio del proprio genio. (…) Venne subito assalita dalla necessità imperiosa di agire, di non passare oltre: un senso di responsabilità s’era destato nella sua coscienza e non cessò mai più di tormentarla”.
#unadonnalgiorno

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