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Maria Paola Patuelli, questo virus non è una guerra

Maria Paola Patuelli, politica, filosofa e scrittrice

Sento dire, e ripetere in continuazione, che siamo in guerra. Non capisco. Le guerre sono combattute da eserciti intenzionalmente nemici. Il virus non è un nemico. È un agente incolpevole – tutto ciò che accade in natura è fuori dalle categorie del bene e del male – che ha trovato un buon terreno di diffusione in contesti naturali che gli umani hanno, in questo caso colpevolmente, apparecchiato. Questo associare il virus alla guerra predispone un clima di emergenza che rischia di andare ben oltre l’emergenza sanitaria, che ha visto ridurre, opportunamente e di molto, la nostra libertà di movimento.

Nostra, di europei, di occidentali, che non di rado abbiamo una cura anche eccessiva di noi. È una patologia individualista diffusa e infantile, la nostra. Le guerre, quelle vere, hanno spesso dato vita a stati di eccezione che hanno ridotto, o annullato, libertà ben diverse dalle libertà di movimento fisico. E, dopo le guerre, ritornare a normalità costituzionali e parlamentari – quando in precedenza c’erano – è stato difficile o impossibile. Penso al primo dopoguerra, che ha visto il fiorire di dittature – in Italia ne sappiamo qualcosa – o al secondo dopoguerra, che ha visto mondi divisi o a responsabilità limitata, quando andava bene.  Siamo ora in una terza guerra mondiale? Non scherziamo.

Chi è già in guerra, da prima del virus, come la Siria, vede peggiorare la propria vita, che già era in condizioni tremende. E in Palestina, dove in pochi chilometri quadrati un piccolo popolo vive privato di quasi tutto?  E nei vari campi profughi, in Libia, in Africa? I virus, incolpevoli, si muovono in zone del mondo già fortemente segnate dalla grande disuguaglianza fra gli umani.

Noi – ora mi colloco in Italia – ci troviamo oggi in una storia che ha origine dalla Resistenza, dalla Repubblica, dalla Costituzione. Siamo fra i pochi paesi usciti dalla seconda guerra in condizioni migliori di prima, a parte i cumuli di macerie che hanno colpevoli ben noti. E le migliori condizioni sono tutte nella Costituzione, che disegna una Repubblica finalmente parlamentare, e per questo democratica. Il nostro storico punto debole? Raramente ci siamo sentiti comunità nazionale.

Neppure negli anni 1946 e 1947, se non nella Assemblea Costituente, dove arrivarono le forze migliori dell’antifascismo. Di un antifascismo che la guerra vera l’aveva fatta o vissuta in prima persona.

Gli anni seguenti furono all’altezza della Costituzione? Non lo furono. Studi storici di grande valore hanno ricordato, per chi l’avesse rimosso o mai saputo (Davide Conti, Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana, Einaudi 2017), che la Repubblica fu, soprattutto nel primo decennio della sua vita,  in molte mani fasciste, con una continuità con lo Stato fascista –  impressionante, a pensarci bene – che la indebolì.

Ci vollero decenni, per esempio, perché la nostra salute fosse riconosciuta – la Costituzione lo dice a chiare lettere – come diritto universale. Ci volle la determinazione di una grande Ministra, partigiana antifascista, Tina Anselmi, che portò a compimento una delle riforme più importanti degli  anni Settanta, quando, anche in altri ambiti – penso a diritti civili che ci avvicinarono all’Europa –  si cominciò a prendere la Costituzione più sul serio. Seguirono poi decenni di disaffezione o esplicita insofferenza verso la Costituzione. Troppo egualitaria, troppo democratica. Il Parlamento fa perdere tempo. In realtà, in Parlamento arrivavano, ormai e sempre più, fino ai recenti disastrosi esiti, yesman spesso ignoranti anche di Costituzione, ignoranti di storia, di politica, di cultura.

Spesso portatori di interessi particolari. Altro che universalità dei diritti, altro che uguaglianza, altro che Repubblica che – nel meraviglioso art. 3 – rimuove gli ostacoli di chi nasce in povertà, o è in difficoltà. Fu così che il sistema sanitario nazionale fu indebolito, impoverito, privatizzato. Che si risparmiò su diritti fondamentali, che le disuguaglianze crebbero, crescono. E qui trovo colpe molto gravi. Ma non è stata, e non è, una guerra. È una politica, è una scelta. A mio avviso, una scelta colpevole, in tempi di pace.

Salvini si lamenta che il Parlamento, in queste settimane, lavora poco. Sono d’accordo. Ma esulta sentendo che il suo amico Orban si è dato pieni poteri – come voleva Salvini per sé l’agosto scorso -, il Parlamento lo ha messo in quarantena a tempo indeterminato, sostenuto da una sua maggioranza, che però non è la democrazia parlamentare.

Non c’è democrazia parlamentare che possa zittire o rendere superfluo un Parlamento, una minoranza, la libera informazione, autonomia dell’ordine giudiziario. Se ai dolori derivanti da un incolpevole virus si aggiunge la colpevole tirannia di un Orban, o di chi, in Italia, la desidera, si passa dalla padella di una democrazia debole, come è quella italiana, a una brace terribilmente dolorosa.

A questo proposito, mi rivolgo a Sala, sindaco di Milano, dal volto – pare, mi dicono – più democratico di quello di Salvini. Ma che, credo, di storia e di Costituzione si intende poco.

Ha proposto che, usciti dalla pandemia, si dia vita a una Assembla Costituente. Non scherziamo, vorrei dire anche a lui. Il virus è una guerra causata da una dittatura? Come fu per l’Italia quando si trovò, stremata, a dovere ricostruire tutto, nel 1945, a partire dalle fondamenta di uno Stato che si era distrutto con le sue proprie mani?

Le fondamenta le abbiamo. Si trovano in una Costituzione non amata da tutte le élite – ce ne siamo accorti bene nel 2006 e nel 2016 – ma salvata dalla maggioranza del popolo italiano.

A proposito, come votò Sala nel 2006 e nel 2016?

La sua proposta è irricevibile. Obbediamo a chi ci chiede prudenza per salvaguardare la salute di ogni singola persona. Lo facciamo e lo faremo con il massimo di attenzione.

Ma ci opporremo a chi, con argomenti errati e che azzerano la storia, vuole convincerci che l’Italia è da rifare.

Applichiamola, la nostra Costituzione. Costruiamo solidarietà, comunità, cerchiamo di assomigliare il più possibile alla Costituzione.

Questo è da fare. Non da ri-fare.

Maria Paola Patuelli è nata a Ravenna il 7 aprile 1947 da Silvia Bazzocchi, staffetta partigiana, e Nello Patuelli, partigiano. È in famiglia che, fin da piccola, nasce la sua passione politica. Si laurea in Filosofia all’Università di Bologna. Dal 1966 si impegna nella Sezione Universitaria Comunista di Bologna e partecipa al Sessantotto. Iscritta al PCI dall’età di diciotto anni, dal 1970 al 1990 è stata consigliera comunale e Assessora nel Comune di Ravenna. Ha conciliato l’attività politica con la professione di insegnante di Storia e Filosofia e di scrittrice.

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