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Marina Abramović la performer più famosa al mondo

Marina Abramović artista performer serba

Marina Abramović, si può considerare l’artista e performer più famosa della nostra epoca. Solo lei è riuscita a rendere la presenza e la fisicità del suo stesso corpo una vera opera d’arte. Con la sua arte si è spinta oltre limiti fisici e psicologici, emozionando il mondo intero e guadagnandosi così il soprannome di “nonna dell’arte della performance”.

Con lei i concetti di arte, di rappresentazione, di spettacolo sono cambiati. Artista eclettica, ama esplorare le relazioni con il pubblico, acutizzare i contrasti tra gli angusti limiti del corpo e le svariate possibilità della mente. Per Marina Abramović, performance e reazioni di chi la osserva viaggiano di pari passo, sono entrambe funzionali allo scopo.

È nata a Belgrado il 30 novembre 1946 ed è la nipote di un santo. Suo nonno era un sacerdote ortodosso, santificato dopo la morte. I suoi genitori erano stati partigiani durante il secondo conflitto mondiale e poi militari. Suo padre, divenne eroe nazionale. L’atmosfera marziale che vigeva in casa, in particolare la propensione della madre alle punizioni corporali, ha probabilmente influenzato molto la sua personalità artistica autolesionista. Quando a 14 anni chiede al padre dei colori per dipingere, lui fa di più: le presenta un suo amico che la coinvolge in una curiosa performance durante la quale tagliuzzano una tela, ci gettano sopra colori e materiali di vario tipo e gli danno fuoco.

Ha frequentato l’Accademia delle Belle Arti di Belgrado e, nel 1973, debuttato con una rappresentazione straordinaria. La sua prima operaRhythm 10, mette in evidenza l’importanza dei gesti e il replicarsi del passato. Servendosi di 20 coltelli e 2 registratori, ha piantato ritmicamente la punta di una lama tra le dita della mano. Quando si tagliava, prendeva il coltello successivo. L’obiettivo, riascoltando la registrazione, è quello di ripetere gli stessi gesti e gli stessi errori. L’anno successo Marina Abramovic è stata a Napoli con Rhythm 0. Giaceva passiva accanto a strumenti di piacere e dolore che il pubblico poteva usare liberamente durante l’arco di sei ore, oltre a forbici e iggetti taglienti e pericolosi, c’era anche una pistola: qualcuno le ha tagliuzzato i vestiti, altri sono arrivati a farla sanguinare e a bere il suo sangue.

La sua incolumità è spesso messa a repentaglio.

Nel 1975 è la volta di Marina Abramović: Art must be beautiful. Dove si spazzola i capelli con due pettini di metallo per un’ora di fila in cui ripete che l’arte e l’artista devono essere belli, fino a deturparsi il volto e a rovinarsi i capelli. Con Lips of Thomas, nel 1975, compie atti esasperanti come mangiare un chilo di miele e incidersi sul ventre una stella a 5 punte con un coltello. Nel 1976, a Amsterdam, incontra un artista tedesco nato il 30 novembre come lei, che sarà il suo amore più grande e più famoso: Ulay, pseudonimo di Frank Uwe Laysiepen. Fra i due prende vita un sodalizio totale, artistico e personale.  Insieme hanno dato vita ad alcune delle performance che hanno fatto la storia dell’arte. Un esempio è Rest Energy, del 1980: un arco è teso fra i due, la freccia tenuta da lui e puntata al cuore di lei. La donna si mantiene all’arco e i due sono tenuti in equilibrio dal peso dei loro stessi corpi. Le opere con Ulay indagano il rapporto uomo-donna, con l’obiettivo di scoprire le complessità della fiducia nell’altro, dell’intimità e della precarietà delle relazioni. Inscenano varie performance come Imponderabilia, a Bologna. Entrambi sono completamente nudi e posti ai lati di una stretta porta che consente l’entrata in galleria. Per accedere, il pubblico deve strizzarsi fra loro in un’intimità forzata quasi imbarazzante. Il loro legame dura 12 anni, per un periodo vivono anche in un furgone, sperimentano insieme i limiti del corpo e dell’anima. Nel 1988 riescono a rendere spettacolare anche la fine del loro amore. Percorrono a piedi la Muraglia Cinese, partendo dagli estremi opposti. Lui dal deserto del Gobi e lei dal Mar Giallo, e dopo una camminata di 2500 chilometri si dicono addio. Questa ultima impresa insieme si chiama The Lovers.

Il vero capolavoro di Marina Abramović è stato Balcan Baroque. Mentre era in corso la sanguinosa guerra dei Balcani, lei presentava alla Biennale di Venezia del 1997 una performance toccante in cui siede su un mucchio di ossa di bovini, che spazzolava compulsivamente per cercare di eliminare sangue, carne putrida e vermi. Una metafora che venne premiata col Leone D’oro.

Col tempo le opere di Marina Abramović sono diventate sempre meno efferate, ma non meno estreme.

Nel 2010 al MoMa di New York ha dato vita a The Artist is present. Una performance durata tre mesi durante la quale è stata seduta immobile per ore con un grande abito ampio (nel documentario omonimo dice che le serviva a nascondere accorgimenti per espletare le funzioni fisiologiche, lasciando il dubbio se stesse scherzando o no), sfidando chiunque a sedersi di fronte a lei e a sostenere il suo sguardo. Le code che si sono formate per fissarla negli occhi erano infinite. le persone hanno fatto di tutto, c’è stato anche chi si è spogliato nudo davanti a lei per provocarne una reazione. Fra gli ospiti che le siedono davanti ci sarà anche Ulay, dopo 23 anni da quando si erano lasciati. Marina Abramović ha lasciato sgorgare le lacrime, gli ha stretto entrambe le mani, e gli ha dato un nuovo addio in silenzio.

Con l’opera The Life, Marina Abramović supera l’effimero racchiuso nel concetto stesso di performance. A differenza delle altre forme artistiche la performance prevede un forte elemento di hic et nunc: non è possibile rivivere una performance già avvenuta e ormai conclusa, poiché l’essenza dell’opera è indissolubilmente legata al rapporto diretto e immediato tra pubblico e artista. Marina Abramović, però, è riuscita a cambiare le regole del gioco, consegnando se stessa e la sua arte all’eternità.

In The Life, l’artista utilizza una tecnologia che permette, attraverso un visore speciale, di visualizzare elementi digitali all’interno della realtà circostante, proprio come se fossero parte di essa. In questo caso l’elemento virtuale è proprio lei, Marina Abramović. Questo permette dunque alla sua performance di essere esperita in qualunque momento e in qualunque luogo, a prescindere dalla fisicità dell’artista e, dunque, anche dopo la sua morte.

Marina Abramović raccoglie così l’antichissima concezione dell’arte come potenza eternatrice, applicandola attraverso la tecnologia e diventando, in un certo senso, immortale. The Life presenta in una dimensione in cui l’artista c’è e non c’è allo stesso tempo, quasi fosse una presenza divina.

Le opere di Marina Abramović sono note per interessarsi ai limiti del suo fisico e della sua mente. La particolarità di The Life, però, è la sua indagine non solo dei limiti dell’essere umano (quali la fisicità e la morte) ma anche di quelli dell’arte performativa stessa. La Abramović porta la performance ad un’ulteriore, importantissima evoluzione, che dimostra come l’arte possa sempre superare i suoi stessi confini.

Recentemente, ha rivelato che la sua ultima performance sarà il suo funerale: 3 bare verranno spedite nelle 3 città in cui ha trascorso la sua vita (Belgrado, Amsterdam e New York), ma nessuno saprà mai in quale di esse sarà sepolta veramente.

A New York, dove ha scelto di vivere, l’artista serba ha aperto una sorta di accademia, il Marina Abramović Institute. Per accedere alla sua scuola c’è un manifesto a cui attenersi. Al primo posto tra le regole per farne parte è essere capaci di digiunare per 5 giorni. Impegnata attivamente a sostegno dell’agricoltura sostenibile, è un personaggio controverso, capace di coinvolgere e dividere, di attrarre e sbigottire.

La sua arte è uno strumento di libertà culturale, sessuale, convenzionale. Con la sua body art continua a rompere schemi e convenzioni.

#unadonnalgiorno

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