artecultura

Yayoi Kusama

Yayoi Kusama la principessa dei pois

Yayoi Kusama è la più importante artista giapponese.

Geniale e camaleontica, realizza installazioni tridimensionali, performance di body painting e dipinti che danno corpo al suo paesaggio interiore.

Un lavoro concettuale che porta avanti tematiche femministe con una tecnica mista tra minimalismo, surrealismo, art brut, pop art ed espressionismo astratto, accomunati dalla tecnica dei pois.

È nata il 22 marzo 1929 a Matsumoto in una famiglia dell’alta borghesia. Ha avuto un’infanzia difficile e travagliata segnata da grossi traumi psicologici. Fin da bambina, ha sofferto di allucinazioni visive e uditive, percependo un’aura particolare intorno ad alcuni oggetti e sentendo gli animali parlare.

Ha utilizzato l’arte per riprodurre ciò che faceva parte di questo mondo, cercando trasformarla in un antidoto.

Appassionata di pittura, veniva ostacolata in tutti i modi dai genitori, ha iniziato a ribellarsi al sistema, sognando di abbandonare il suo paese non appena ne avesse avuto la possibilità.

Nel 1958 si è trasferita a New York per seguire la sua musa ispiratrice, l’artista Georgia O’Keeffe.

Gli inizi non furono facili, l’arte era dominata dagli uomini e nessuna galleria era disposta a offrire spazio a una donna, asiatica e sconosciuta.

I suoi primi lavori sono stati la serie Infinity Net, grandi tele di circa dieci metri, astratte e molto colorate.

Durante tutta la sua carriera è stata subissata da atteggiamenti sessisti e razzisti da parte di colleghi, critici e galleristi.

Negli anni ’60 ha realizzato numerose performance, spesso provocatorie, in cui dipingeva con dei pois i corpi nudi dei partecipanti, facendoli “entrare” nelle sue opere.

Nel 1964 ha presentato alla galleria di Gertrude Stein One Thousand Boat Show, opera in cui ha sfidato il patriarcato attraverso innumerevoli forme falliche.

Una sua performance indimenticabile, nel 1966, portò scompiglio alla Biennale di Venezia dove si era presentata, senza essere invitata, gettando 1.500 sfere galleggianti nei canali della città come parte dell’opera Giardino dei Narcisi.

Dopo aver vissuto a pieno la vivacità delle avanguardie newyorchesi, nel 1973, è tornata in Giappone ritrovandosi davanti un mondo arretrato di cento volte rispetto a quello che aveva lasciato. I giornalisti connazionali la trattavano in modo freddo e infastidito, quasi fosse uno scandalo per il paese, questa brutta accoglienza, le ha procurato una forte depressione.

Dal 1977, ha scelto, volontariamente, di vivere in un ospedale psichiatrico, crea le sue opere in un atelier di fronte alla struttura.

Come donna e artista si è sempre male adattata agli schemi sociali, soprattutto in un paese tanto conservatore e contraddittorio come il Giappone. Nel suo percorso di sfida di genere nell’arte, non ha mai rinunciato a combattere le sue fobie, come quella per il sesso instillatale dai genitori, realizzando performance uniche su corpi di donne e uomini nudi.

Il 1993 ha rappresentato la data della sua vera rinascita, il suo lavoro è stato ospitato alla Biennale di Venezia per la quale ha realizzato un’abbagliante sala degli specchi con inserite delle zucche che sono diventate il suo alter-ego.

Da quel momento in poi, le sue opere sono state esposte nei più importanti musei del mondo come il MoMa di New York, la Tate di Londra e il National Museum of Modern Art di Tokyo.

Il grande pubblico ha iniziato a conoscerla grazie alla collaborazione con Peter Gabriel per il videoclip del brano Lovetown del 1994, in cui evidenzia tutte le sue ossessioni: pois, reticolati, cibo e sesso.

Nel 2012, grazie a Marc Jacobs, direttore artistico di Louis Vuitton, è iniziata una importante collaborazione con la maison francese per cui ha creato numerosi capi di abbigliamento, accessori, borse e scarpe che riportano gli ossessivi pois molto grandi e colorati oltre alle zucche e i nervi biomorfici, altri elementi caratteristici della sua arte. 

Nel 2017 è stato inaugurato il Yayoi Kusama Museum di Tokyo, cinque piani che accolgono una collezione permanente, collezioni temporanee e le sue installazioni immersive.

Nel 2018, il regista Heather Lenz, ha realizzato il documentario Kusama Infinity, che mostra il percorso tortuoso della grande artista dallo spirito fragile, la cui costante è una sensazione di enorme solitudine.

Bisogna scavare nel suo passato remoto per trovare la chiave interpretativa del suo percorso artistico. Fin da piccola, soffriva di disturbi ossessivo-compulsivi e allucinazioni plurime, dovute a perpetrate violenze domestiche.

Yayoi Kusama ricrea, attraverso l’arte, le sue visioni come mezzo per dominarle, convertendo questa proliferazione minacciosa in una via di salvezza e fuga verso un’entropia liberatoria.

Pois e fiori giganti, reti, protuberanze molli e forme falliche. La riproduzione, moltiplicazione e aggregazione ossessiva di questo ristretto vocabolario di forme è la firma stilistica delle sue opere.

Sempre in bilico tra due estremi, ci parla del cosmo, dei pois, che riportano alla natura universale delle sue visioni allucinate e ripetitive, e poi, come se si staccasse dal suo corpo, si osserva dall’esterno e sente tutta la concretezza dell’ambiente sociale in cui è immersa.

 

#unadonnalgiorno

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