Se uno lancia un sasso, il fatto costituisce reato. Se vengono lanciati mille sassi, diventa un’azione politica. Se si dà fuoco a una macchina, il fatto costituisce reato. Se invece si bruciano centinaia di macchine, diventa un’azione politica. La protesta è quando dico che una cosa non mi sta bene. Resistenza è quando faccio in modo che quello che adesso non mi piace non succeda più.
Ulriche Meinhof, giornalista e rivoluzionaria tedesca, è stata fondatrice e portavoce della RAF, Rote Armee Fraktion, gruppo armato comunista, che la stampa aveva chiamato Banda Baader-Meinhof.
Nata a Oldenburg, allora Repubblica Federale Tedesca, il 7 ottobre 1934, da Werner Meinhof, storico dell’arte, simpatizzante del nazionalsocialismo e direttore dello Stadtmuseum di Jena e Ingeborg Guthardt, figlia di Johannes, militante clandestino anti-regime.
Dopo aver perso entrambi i genitori, era stata cresciuta da Renate Riemeck, pedagogista, attivista e pacifista, dalla mentalità aperta e anticonformista.
Aveva studiato psicologia, pedagogia e storia dell’arte all’università di Marburg prima di sposare Klaus Röhl, fondatore della rivista di sinistra konkret, di cui era capo redattrice.
Il 5 maggio 1969 ha appoggiato un’azione di sabotaggio verso il giornale che riteneva troppo distante dalle posizioni della sinistra radicale, in seguito all’impronta commerciale che l’ormai ex marito aveva impresso al progetto per garantirne la sopravvivenza dopo che la DDR aveva smesso di finanziarlo.
Tornata a Berlino, ha sperimentato per un breve periodo la convivenza in una comune e il suo impegno politico l’ha vista coinvolta in gruppi estremisti rivoluzionari.
Il 14 maggio 1970 ha contribuito all’evasione del terrorista Andreas Baader, arrestato, insieme a Gudrun Ensslin, in seguito all’incendio dei grandi magazzini di Francoforte, in quella che viene considerata la sua prima azione e l’inizio della RAF.
Non era previsto che scappasse insieme a Baader, il suo ruolo era di fare da esca con il pretesto di scrivere un libro a quattro mani sugli adolescenti disadattati, mentre altri compagni facevano irruzione nell’Istituto per le problematiche sociali a Dahlem. Ma dopo la sparatoria che si era scatenata sul posto si era unita ai fuggiaschi, saltando dalla finestra e cominciato il suo periodo di clandestinità.
La RAF era diventata in breve tempo, il nemico pubblico numero uno nella lotta del paese al terrorismo.
Per il gruppo rivoluzionario ha redatto il documento programmatico e scritto la gran parte dei trattati e manifesti che denunciavano lo sfruttamento del capitalismo.
Dopo aver trascorso un periodo di addestramento in Giordania, ha partecipato attivamente a furti e attentati a sedi di polizia e postazioni militari statunitensi.
Nel mese di giugno 1972 i maggiori esponenti dell’organizzazione, vennero incarcerati e il nucleo storico della RAF decimato.
Ulrike Meinhof è stata catturata il 15 giugno 1972 a Langenhagen, vicino Hannover e ha subito una carcerazione contro ogni rispetto per i diritti umani.
È stata tenuta in isolamento per 273 giorni, trattata in condizioni disumane, era costretta a stare con la luce accesa giorno e notte e subire controlli ogni 15 minuti. Questo stato brutale di detenzione le aveva provocato una condizione di totale spaesamento e distacco dalla realtà che ha documentato nei suoi scritti. I diversi scioperi della fame ne hanno minato ancora di più l’equilibrio psico-fisico.
Il 29 novembre 1974 è stata condannata a otto anni di prigione per l’attentato con esplosivo alla casa editrice Axel Springer Verlag che, nel 1972, aveva causato il ferimento di 17 persone.
Il 21 maggio 1975 si è tenuto il processo dei membri della RAF in un bunker di cemento armato a nord di Stoccarda.
La mattina del 9 maggio 1976 è stata trovata impiccata alla finestra della sua cella.
Le autorità carcerarie affermarono che si fosse suicidata, i suoi compagni non ci hanno mai creduto e all’autopsia ufficiale non furono ammessi testimoni.
Il funerale si è tenuto a Berlino il 15 maggio 1976, con una grande partecipazione di massa e diverse manifestazioni di protesta in altre città tedesche.
Di fronte alla commissione investigativa internazionale che nel 1978 si è occupata della sua morte e che aveva riscontrato danni di violenza fisica, lo psicologo danese Jörgen Pauli Jensen aveva dichiarato che «simili condizioni detentive annientano il bisogno umano di contatti sociali e di percezione sensoriale… sul piano fisico si diffonde lentamente la distruzione delle cosiddette funzioni vegetative (mutamenti patologici degli istinti rispetto al bisogno di sonno, di cibo, di dissetarsi, del tenesmo della vescica, subentrano cefalee, perdita di peso) mentre sul piano psichico si stabilisce instabilità emotiva (rapporto sproporzionato tra improvvise sensazioni di angoscia, gioia e rabbia)».
Il 18 ottobre 1977 anche Baader, Ensslin e Raspe vennero trovati morti nelle loro celle in circostanze altrettanto misteriose. Il governo ha voluto cancellare ogni traccia della leadership del gruppo rivoluzionario che ha sconvolto il paese con attentati e sabotaggi.
Dopo lunghe indagini, la figlia Bettina Röhl, che ha scritto il libro Die Bundesrepublik im Rausch von ’68 (Sulla frenesia che coinvolse la Germania Ovest nel 1968), ha scoperto che da 25 anni il cervello sezionato della madre era conservato in un magazzino dell’università di Magdeburgo dove era stato a lungo studiato e ne ha preteso la ricongiunzione con i resti sepolti nel cimitero evangelico di Mariendorf, il 19 dicembre 2002.
La storia di Ulriche Meinhof ha ispirato film, romanzi e canzoni tra cui Lobotomia degli Area nel 1974, Incubo numero zero di Claudio Lolli del 1977 e Ulrike Meinhof di Giovanna Marini nel 1978, anno in cui anche Dario Fo e Franca Rame hanno scritto il monologo Io, Ulrike, grido…
Il Premio Nobel Elfriede Jelinek le ha dedicato l’opera teatrale Ulrike Maria Stuart.
Mentre era detenuta, scriveva: «Io so davvero perché ho sostenuto che quest’ala è il tentativo di estorcere un suicidio. Perché tutta l’energia dedicata a resistere al silenzio assoluto, nel silenzio in cui nulla è assolutamente percepibile, alla fine non ha altro oggetto che il detenuto stesso. Non potendo combattere il silenzio, perché si può combattere soltanto ciò che si subisce direttamente. A questo fine mira la detenzione nell’ala morta: all’autodistruzione del detenuto».
«Agenti, visita, cortile ti sembrano essere fatti di celluloide – i visitatori non ti lasciano niente. Mezz’ora dopo riesci a malapena a ricostruire se la visita è avvenuta oggi o la settimana scorsa … La sensazione che il tempo e lo spazio siano incastrati uno nell’altro – la sensazione di trovarsi in una stanza di specchi deformanti – di sbandare. La sensazione di essere spellata».
«…sensazione che ti esploda la testa (la sensazione che la scatola cranica debba spezzarsi, sollevarsi)… Ti svegli, apri gli occhi: la cella sta viaggiando; di pomeriggio, quando entra la luce del sole – di colpo si ferma. La sensazione del viaggiare però non riesci a togliertela. Non puoi dire con certezza se tremi di febbre o di freddo – in ogni caso hai freddo. Per potere parlare in tono normale devi fare lo stesso sforzo che faresti per parlare a voce alta, quasi come urlassi.
La sensazione di ammutolire – non riesci più a identificare la semantica delle singole parole, la puoi solo indovinare – i suoni sibilati sono assolutamente insopportabili. Dolori alla testa.
La costruzione della frase, la grammatica, la sintassi – non sono più controllabili. Mentre scrivi due righe – alla fine della seconda hai già dimenticato quello che hai scritto all’inizio della prima. La sensazione di bruciare interiormente».
Forse non si saprà mai se Ulriche Meinhof si sia realmente suicidata, sangue sui vestiti e segni di violenza fisica e sessuale contraddicono i reperti ufficiali, ma costringere una persona nella condizione inumana che ha raccontato si può considerare omicidio di stato.















