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La straordinaria generosità di Juliette Colbert

Juliette Colbert marchesa filantropa

Juliette Colbert marchesa filantropa francese naturalizzata italiana, conosciuta da noi, come Giulia di Barolo. Una straordinaria donna del Risorgimento che ha dedicato tutta la sua vita ai poveri e agli ultimi, con dedizione e fierezza.

Juliette Colbert nacque a Maulévrier, il 27 giugno 1785, nella Vandea, regione dei Paesi della Loira, in Francia, da una nobile famiglia. Pronipote di quel Jean-Baptiste che fu Ministro del Re Sole,  trascorse l’infanzia tra il fuoco della Rivoluzione. Orfana di madre a soli 7 anni, vide molti dei suoi parenti salire sul patibolo, durante gli anni del Terrore. Bella, colta e raffinata, negli anni della Restaurazione fu accolta dalla corte francese di Napoleone, dove conobbe il suo futuro marito, il marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo, sposato nel 1806. Il marchese era di Torino, all’epoca occupata dai francesi, città dove i due sposi si trasferirono. La coppia visse a Palazzo Barolo, ritrovo per l’élite culturale e politica torinese, oltre che sede di molte opere di carità, e dove fu ospitato, fino alla morte, il patriota e scrittore Silvio Pellico, reduce dalla prigionia nella Fortezza dello Spielberg, che divenne loro segretario di famiglia.

Il prevalente interesse dei due coniugi fu, da subito, per la beneficenza: Juliette, in Piemonte chiamata anche Giulia (a Torino la marchesa imparò l’italiano, l’inglese e il greco) si dedicò all’assistenza delle carcerate, e intraprese, insieme con il marito, iniziative benefiche: scuole gratuite, assistenza ai poveri e donazioni.
Il marchese finanziò quasi interamente la costruzione dell’attuale Cimitero monumentale di Torino del 1828, utilizzando una parte del vecchio Regio Parco della città sabauda. Palazzo Barolo aprì le porte ai poveri e ai mendicanti, cui la Marchesa in persona serviva zuppe calde e ristoro.

Juliette Colbert capiva a fondo il privilegio e la fortuna di essere nobile, per questo sentì più acuta la necessità di aiutare gli ultimi e soprattutto le ultime, le donne emarginate dalla società e tacciate dallo stigma del peccato: le carcerate. La nobildonna si recava quotidianamente in visita alle «forzate», come venivano apostrofate prostitute, ladre e assassine messe ai ceppi e dimenticate da tutti. Le assisteva nei bisogni materiali (vestiti, giacigli, igiene personale) e spirituali, insegnando loro a leggere, a scrivere e a pregare. Fondò delle case per le carcerate in libertà.

A Juliette Colbert si deve uno dei primi progetti di riforma carceraria, presentato al Governo nel 1821, che la fece nominare, scandalizzando molti, sovrintendente alle carceri.

In breve il carcere divenne un istituto modello e, redatto un nuovo regolamento interno, lo sottopose alla discussione con le detenute, da cui ebbe approvazione unanime.

Carlo di Barolo, suo marito, divenne consigliere del re, che gli affidò incarichi sempre più importanti, soprattutto nel campo della sanità e dell’istruzione, dimenticando volentieri i sospetti per la vicinanza alle idee giacobine che aveva posto la famiglia nelle liste nere dei sorvegliati dalla polizia.

Palazzo Barolo divenne il primo asilo infantile italiano, un luogo dove le mamme lavoratrici potevano lasciare i propri bambini e bambine. Juliette Colbert finanziò e creò istituti per l’accoglienza delle prostitute, la cura delle ragazze disabili – l’Ospedaletto di Santa Filomena – e l’educazione delle figlie degli operai: le prime scuole professionali dove si insegnava a tessere e ricamare.

Case di accoglienza, non gli orfanotrofi disumani del regio governo liberale, ma ambienti puliti e caldi. Juliette Colbert collaborava con un giovane don Bosco, e il beato Cottolengo: santi che cambiarono il volto di Torino e della Chiesa tutta di quel periodo. Davano tutto, tempo, lavoro, soldi, cuore. Fondarono Valdocco, gli Artigianelli, l’Ospedale del Cottolengo e decine di istituti religiosi per ospitare gli ultimi e le ultime della società.

Arrivò la peste ad aumentare il lavoro, poi la morte di Carlo.

Giulia aveva speso tutte le ricchezze di famiglia. Ma ne aveva accumulate di nuove, dedicandosi anche alla produzione del vino Barolo con tecniche innovatrici. La marchesa apparteneva all’antico lignaggio di nobile tradizione enologica francese, disciplina che iniziò dai suoi antenati già due secoli prima nelle regioni della Loira. Il successo del vino fu un’operazione di marketing architettata strategicamente dalla nobildonna. Quando il re avendone sentito decantare la bontà da Cavour, le chiese di assaggiarlo, gli fece arrivare a corte una lunga fila di carri che trasportava 325 bottiglie, una per ogni giorno dell’anno, esclusi i 40 della Quaresima.

Non c’è alcuna leggenda dietro questi racconti: Giulia stessa trovò il tempo per documentare tutto nei suoi diari: opere, diletti, incomprensioni, sofferenze, amicizie. I suoi scritti rappresentano un interessante spaccato di quel periodo storico.

Alla sua morte, nel 1864, con le sue ultime volontà, diede vita all’Opera Pia Barolo, a cui lasciò l’intero patrimonio di famiglia, che ancora oggi prosegue l’impegno sociale, politico e culturale della sua fondatrice.

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