femminismi

Sara Ahmed e il femminismo guastafeste

Sara Ahmed

L’intersezionalità è il punto di partenza da cui dobbiamo procedere se vogliamo offrire un resoconto di come funziona il potere.

Sara Ahmed, scrittrice femminista e studiosa indipendente, lavora sull’intersezione tra studi femministi, queer e razziali.

Ha pubblicato dieci libri, tra cui Vivere una vita femminista, definito da The Paris Review “totem del postmodernismo femminista, teoria degli affetti e fenomenologia queer”.

La sua ricerca si concentra su come corpi e mondi prendono forma e come il potere viene assicurato o messo in discussione nella vita quotidiana e nelle culture istituzionali.

Temi chiave del suo lavoro, come migrazione, orientamento, differenza, estraneità e identità miste, sono direttamente correlati alle sue esperienze di vita.

Nei suoi scritti e blog chiarisce i principi del vivere e praticare la vita attraverso la visione femminista, creando anche uno spazio per condividere come queste incarnazioni creino tensione nelle esperienze di vita sotto sistemi di patriarcato e oppressione.

Analizza le strutture dell’emozione come fenomeni sociali che dettano il modo in cui conduciamo le nostre vite.

Nata a Salford, in Inghilterra, il 30 agosto 1969, da padre pakistano e madre britannica, ha vissuto in Australia dove si è laureata all’Università di Adelaide. Ha svolto il dottorato di ricerca presso il Centro per la teoria critica e culturale, dell’Università di Cardiff.

Ha insegnato Women’s Studies alla Lancaster University per dieci anni.

Docente di Studi razziali e culturali presso la Goldsmiths University of London, dove ha diretto e fondato diretto il Centro di Ricerca Femminista, si è dimessa nel 2016 in segno di protesta contro la mancata gestione del problema delle molestie sessuali.

Nel 2017 ha ricevuto il Premio Kessler per i contributi al campo degli studi LGBTQ e nel 2019, un dottorato honoris causa dall’Università di Malmö, in Svezia.

Nel dicembre 2024 avrebbe dovuto presentare Il manuale della femminista guastafeste alla fiera editoriale indipendente Più Libri più Liberi, ma, dopo aver appreso che nella stessa edizione era stato invitato Leonardo Caffo, accusato e in seguito condannato, per maltrattamenti e lesioni contro la sua ex compagna, ha scelto di non partecipare motivando il suo diniego in una lettera aperta:

Care femministe italiane,

vi scrivo da studiosa e scrittrice femminista. Il mio libro The Feminist Killjoy Handbook (Il manuale della femminista guastafeste) è stato recentemente tradotto in italiano da Fandango Libri. Avrei dovuto parlare delle femministe guastafeste a Più Libri più Liberi venerdì 6 dicembre.

Ringrazio le attiviste femministe, come anche il mio editore, per avermi messo al corrente di quanto stava succedendo relativamente alla fiera, ovvero, l’aver rivolto l’invito a un accademico al momento sotto processo per violenza domestica e di genere. Ho letto il modo in cui in un primo momento è stato difeso l’invito (in base alla libertà di parola di chi è presunto innocente) e le scuse degli organizzatori della fiera (prima di tutto per aver ferito).

Dal mio punto di vista le scuse sono insufficienti. Si deve riconoscere non solo il fatto che l’invito è stato sbagliato ma anche il perché lo è stato, specialmente in una fiera dedicata alla memoria di Giulia Cecchettin.

Riconoscere perché è stato sbagliato vorrebbe dire partecipare all’impegno femminista di non riprodurre la cultura che normalizza (e giustifica e scusa) la violenza sessuale.

Ho per questo deciso di non partecipare e di non parlare alla fiera. Voglio però soffermarmi un momento sulla mia decisione condividendo con voi alcune mie esperienze e alcuni miei sforzi.

Per me, vivere una vita femminista – ed essere una femminista guastafeste – significa opporsi, e parlare contro tutte le forme di violenza, inclusa quella istituzionale, come anche quella sessuale. Dobbiamo farlo anche (o specialmente) quando questo significa rinunciare a delle opportunità. Noi riconosciamo i nostri sforzi femministi quando diventano per noi degli ostacoli!

Nel 2016 ho lasciato il mio lavoro e la mia professione perché la mia università aveva mancato di riconoscere le molestie sessuali come un problema istituzionale.

C’erano state molte indagini, nel corso di molti anni, per le accuse rivolte a molte persone, ma continuavano a trattare la questione come un fatto individuale. Così, il ruolo dell’istituzione nel consentire le molestie svaniva (le indagini sarebbero ancora segrete se non mi fossi dimessa e non le avessi rese note).

Quando approcciamo il problema come se riguardasse un solo individuo (e la sua libertà di espressione) abbiamo smesso di indicare la causa del problema: come certe condotte non solo sono permesse, ma spesso facilitate e premiate dalle stesse istituzioni.

Chiamiamo il problema con il suo nome: patriarcato. Ma un’altra lezione delle femministe guastafeste è che chiamare il problema con il suo nome significa diventare il problema.

La mia ricerca sul meccanismo del complaint, del lamento, che è uno dei modi di chiamare il problema, mi ha insegnato quanto tanta violenza e tante molestie tendano a essere trattate come stili o modi di esprimersi individuali.

Un esempio: il direttore di un dipartimento aggredì fisicamente una donna. Nel resoconto veniva descritto come una persona con “uno stile di gestione molto diretto”. Gli fu permesso di rimanere, a lei venne detto di andarsene. Quando le istituzioni facilitano le molestie, parliamo del numero di persone che mancano dentro di esse.

È il motivo per cui, per non riprodurre una cultura di molestie, le istituzioni, o quanto meno chi parla in loro vece, devono dire no, pubblicamente e fermamente. Il no non è garanzia di un cambiamento ma può far iniziare una conversazione riguardo ciò che è necessario cambiare.

questa sarebbe una conversazione sulla libertà. Parlando di libertà dobbiamo includere le condizioni sociali che influiscono sul fatto che alcune persone possono prendere parte a una conversazione sulla libertà. In passato ho accettato di parlare in alcuni contesti, perché poi mi venisse detto che non erano accessibili alle persone alle quali intendevo rivolgermi.

Mi viene in mente un’occasione in particolare, una lecture universitaria in un teatro che precedentemente era stato usato per discutere le denunce di violenza sessuale. Alcun3 student3 mi dissero di non aver potuto partecipare quel giorno perché rientrare in quegli spazi sarebbe stato un nuovo trauma.

È uno dei miei impegni guastafeste fare tutto ciò che è possibile affinché le persone più colpite dalle forme di potere e violenza affrontate nel mio lavoro possano partecipare alle discussioni su questi temi. So che ci sono persone che non si sentirebbero libere, in ragione delle loro esperienze e sforzi, a entrare in uno spazio messo a disposizione da Più Libri più Liberi. Perciò non posso portare le femministe guastafeste alla fiera.

Il mio impegno è legato a doppio filo alle idee femministe – alla demolizione di ogni istituzione che ci impedisce di essere liber3 di vivere la vita a modo nostro. Verrò comunque a Roma e non vedo l’ora di parlare con altre femministe che condividono questo stesso impegno.

https://www.fandangolibri.it/2024/11/27/lettera-aperta-alle-femministe-italiane-sara-ahmed/

 

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